Buchenwald-LO SCHIAVO DI HITLER - NARDO' FOTO ARTE STORIA

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Buchenwald-LO SCHIAVO DI HITLER

BANCA SAPERI
                                                                LO SCHIAVO DI HITLER
                                                         Francesca Vonghia - Elsa Indiano - Simone Martina - Danilo Ingusci
 
 

L’8 settembre 1943 è una delle date più significative del secondo conflitto mondiale. E’ il giorno dell’ Armistizio, della fine delle ostilità tra l’Italia e l’esercito degli Alleati. Nei giorni che seguirono, le truppe italiane che combattevano in Italia,Grecia,Cefalonia,Albania,Paesi Balcani, prive di ordini precisi, furono facile preda delle milizie naziste.
 
I soldati italiani , rimasero isolati, senza ordini, senza contatti e ogni reparto agì di propria iniziativa, con un conseguente sacrificio quasi totale. Si ritrovarono completamente sopraffatti dalle truppe tedesche che organizzarono, immediatamente, vere e proprie retate dove caddero e furono arrestati migliaia e migliaia di soldati.
 
Tra i soldati disarmati, una parte accettò di restare al servizio dei tedeschi o di passare alla milizia fascista, un’altra riuscì a scappare e in qualche modo a sottrarsi alla prigionia e una terza conobbe la tragica esperienza  delle deportazioni e dell’internamento nei lager del III Reich. Tanti soldati scelsero di non sottomettersi ai tedeschi e accettarono qualcosa che non sapevano gli avrebbe portati ad una detenzione per eliminazione forzata nei campi di concentramento.

Anche Nino Pagliula, un soldato classe 1914, che l’8 settembre si trovava in una zona compresa tra i confini di Grecia e Albania, fu costretto dai tedeschi  a scegliere tra il  mettersi agli ordini dei comandi nazisti  e fascisti oppure di continuare ad essere soldato italiano. Nino Pagliula non accettò di continuare a combattere con i tedeschi e iniziò la sua Odissea che durò almeno due anni della sua vita in un campo di concentramento della Germania chiamato Buchenwald.
 
La storia della deportazione di oltre 650.000  italiani da parte delle forze armate tedesche, il loro  internamento nei “lager” e il loro massiccio impiego nella produzione bellica tedesca come manodopera schiavizzata, appartiene pienamente alla storia d’Europa ed è comune a quella delle vittime del nazismo. Questi militari italiani vissero un vero e proprio inferno in terra, inghiottiti da una spirale in cui precipitarono la Germania nazista e i suoi milioni di schiavi.                                         
Un inferno fatto di fame, distruzione, desolazione, bombardamenti, sofferenza e morte.
 
Quella degli Internati Militari Italiani ( IMI ), che a carissimo prezzo non cedettero alle lusinghe naziste e fasciste, fu una resistenza NON ARMATA, ugualmente importante di quella armata che in quello stesso periodo agiva soprattutto nel Nord Italia. Come la Shoah, come le foibe, questa storia è riemersa dall’oblio degli anni per volontà di pochi uomini. Nino Pagliula fu uno degli ultimi testimoni di una storia incredibile che lui ha voluto tramandare ,negli ultimi anni della sua vita ,a centinaia di studenti salentini.
 
Noi, adesso, la racconteremo per filo e per segno così come lui l’ha raccontata , e partiremo proprio dal giorno in cui iniziò la sua Odissea.
 
“Era il 1939, eravamo artiglieri di corpo d'armata nel bel mezzo del canale di Corinto, sulla nostra nave da guerra, l’Aventino. Bari era ormai lontana. In basso il mare, in alto un cielo azzurro e splendido tutto in contrasto con i nostri cuori perché andavamo a morire per la patria. Dopo una lunga notte passata al buio e nel silenzio arrivammo al porto di Valona. Davanti a me un soldato con un enorme zaino faceva fatica ad attraversare la passerella e, io  imprecando un po', attirai la sua attenzione.  Era di Nardò, riconobbi  Don Crispino Vetere, questo il suo nome da civile, almeno.  Lì era il tenente e basta! Lui ascoltò le mie imprecazioni, eravamo concittadini, i gradi, le stellette, la classe sociale non contavano più. Mi consigliò di andare in magazzino e di non scegliere l'ospedale del campo. “lì starai bene” mi suggerì.          

La notte successiva ci bombardarono, gli uomini si sostituivano, i cavalli no e i cannoni erano pesanti.
Stavo bene dietro il bancone del magazzino viveri, non mi mancava nulla. Il suggerimento era giusto. Il colonnello, poi,  mi disse di preparare un gavettino pulito perché aspettavamo visite. Quel giorno faceva freddo e pioveva; pastrano, berretto, pistola : Benito non mi fece impressione, non incuteva  timore.
 
Discusse con i comandanti del campo, gli strigliò: “le linee nemiche?”… “perché non avete ancora sfondato ? ” sembrava deluso, oppure no. Ma questa guerra , pensai,  chi l'ha voluta?  Presi il mio gavettino di  metallo colmo di vino e lo porsi al Duce. Mussolini rivolgendosi a me ribattè: “soldato come mai questo gavettino è così nuovo? “ “Se viene un’ispezione , rispondo pronto , ho sempre un ricambio per ogni evenienza”.                                                                                                                

La risposta di Mussolini , guardandomi negli occhi, fu profetica: “in bocca al lupo, soldato!”. “E in bocca al lupo mi ci avrebbe mandato davvero “.
 
“Il reggimento andava , tre batterie, cannoni e mitragliatrici e iniziava la “ fera “: faceva freddo , alcuni erano scalzi. La neve cadeva e si congelava e non si poteva andare avanti di un metro, ma il fronte greco non cedeva. Così noi restammo lì per giorni e giorni nel ghiaccio, di notte, al gelo. Con me c'era un certo Manieri, mi pare sia figlio di Alfonso, il fattore di Don Pietro Villani. Fa il barbiere di batteria, o meglio, faceva. Durante un bombardamento tirò fuori la testa dal rifugio, vedemmo i suoi ferri da barbiere volare ovunque; volle morire, lui faceva la barba a tutti i conoscenti, ed era di Nardò “.
 
“Un giorno, non so come e perché, i Greci battono in ritirata e noi occupammo le loro posizioni”.
“E’ finita , affermammo, abbiamo vinto, non si muore più, ma in realtà tutto doveva ancora cominciare “.
“Non ho mai capito perché ma i tedeschi ci sostituirono sul fronte, ci disarmarono e ci ritrovammo, improvvisamente,  schiacciati come sardine in un vagone merci.   Non ci dissero nulla: né dove andavamo, nè cosa ci attendeva. Passavano i giorni e scompariva il sole della nostra terra, il freddo aumentava sempre di più e si vedeva il cielo sempre grigio e poi tanta neve alta come io non avevo mai visto. I ragazzi più piccoli morivano, nel vagone eravamo in piedi e noi non  potevamo nemmeno muoverci. Ci fecero scendere ogni tanto ma i nostri bisogni li facevamo dentro, tutto  puzzava di urina, un odore insopportabile che ancora mi insegue.
Ero solo tra tante voci strane, lingue mai sentite.
Dopo almeno tre settimane di viaggio arrivammo a destinazione.                                                                                                                
 
Benvenuti nel campo di concentramento, benvenuti nell’inferno dove all’ingresso vi era la scritta   “ A ciascuno il suo “.
“Il campo in cui ci hanno portati prendeva il nome di Buchenwald nella regione della Turingia, nella Germania orientale La via che ancora oggi si percorre attraverso il bosco per giungere al campo è nota come “Blutstrasse” ovvero “via del sangue”.
 
“ Grida, urla, lamenti e pianti si sentivano rimbombare nell’aria mescolandosi a lingue sconosciute e mai sentite. La mattina ci costrinsero a spogliarci, a consegnare gli abiti, la biancheria, tutto quello che tenevamo con noi. Completamente nudi, altri prigionieri ci rasarono ogni parte del corpo, ci “disinfettarono” con uno straccio intriso di liquido puzzolente e ci spinsero nei locali delle docce dove con l’acqua che scendeva fredda e a tratti calda finalmente ci lavammo e soprattutto ci dissetammo. Mi costrinsero ad indossare abiti non della mia misura, usati e sporchi, la giacca era piena di pidocchi e mi divisero dai miei compagni di viaggio. Venni assegnato a una baracca insieme a polacchi e russi e io solo parlavo italiano.                                             
I miei compagni di baracca avevano un numero tatuato sul braccio che io non ho mai avuto, senza capirne il perché. La mattina all’alba ci facevano fare lunghe marce e poi cominciavano gli interminabili appelli sotto la neve che duravano ore e ore a temperature che toccavano dai 20 ai 25 gradi sotto zero.                                              

Nei primi giorni, all’alba, ci contavano nudi e io cercavo di capitare al centro del gruppo per riscaldarmi con il calore degli altri perché mi accorsi, con il passare dei giorni, che chi cadeva e non resisteva alla stanchezza e al freddo,veniva picchiato, portato in infermeria, che era l’anticamera della morte, e successivamente nelle camere a gas.                                                                                                                               
I tedeschi erano forti e armati, noi senza scarpe, vestiti, senza niente.  Era  tutto casuale, morivi dove capitava: uno di diciotto anni caricava una trave e moriva, cadevano e morivano. Erano piccoli, avevano diciassette, diciotto anni. Mi costrinsero a fare di tutto: dalla tosatura e allo spoglio dei nuovi arrivati, fino al trasporto ai forni e nelle fossi comuni dei corpi che venivano uccisi nelle camere a gas. Quanti bambini, quanti di quei piccoli corpicini messi nei forni oppure, coperti di benzina e poi bruciati con un fiammifero “.
 
“ Una volta al giorno il pane che ci davano era composto da segatura ed era sempre bagnato, la minestra che chiamavamo sgobba, era composta soprattutto da rape da foraggio, tagliate a fettucce, amare e disgustose, e quando questa ci veniva negata, ci nutrivamo di tutto quello che era masticabile : bucce di patate, radici, erba, ghiande, avanzi della cucina dei tedeschi recuperati tra i rifiuti. Le latrine erano delle trincee scavate nel campo all’aperto che ci costringevano a svuotare e non passava giorno che i prigionieri non cadessero in queste morendo negli escrementi senza che qualcuno potesse fare niente poiché era vietato soccorrerli. Molti che  annegavano nelle latrine erano bambini, quando di notte andavano a fare i loro bisogni, assonnati, perdevano l’equilibrio e affogavano “.
 
“ Dopo qualche mese ci portarono in fila e a piedi a lavorare in una fabbrica di munizioni, c’erano le campagne e le fabbriche e bisognava lavorare lì. Al nostro passaggio molti tedeschi ci sputavano addosso e in faccia, ci costringevano a lavorare senza vestiti e senza scarpe. Il lavoro, la mia resistenza fisica e una donna che era la proprietaria della fabbrica mi hanno permesso di sopravvivere alla disumanità che vedevo con i miei occhi giorno per giorno. Quella donna si chiamava Elena ed era la moglie, rimasta vedova, del comandante che governava la fabbrica. Aveva qualche anno più di me, la intravidi appena mentre scaricavo le travi con i compagni di sventura. Poi, nel giro di pochi istanti, fu proprio  una trave a fregarmi, due dita rimasero sotto e io mi contorsi dal dolore.                   
Ci volle poco a vedere che il freddo congelava le mie dita mentre cercavo disperatamente di bloccare la fuoriuscita del sangue con alcune carte da giornale evitando di farmi vedere dai tedeschi.                                                                                

Chi era andato in ospedale non era mai più tornato. Alzai gli occhi al cielo per imprecare ed incontrai i suoi, mi guardava, mi fissava negli occhi.  Probabilmente il fatto di piacerle mi risparmiò da una brutta fine perché mi fece fare un lavoro meno pericoloso “.
 
Il campo di Buchenwald è famoso anche per Ilse Koch, moglie di Karl Otto Kock,   comandante del campo di concentramento , che per la sua ferocia, immoralità e sadismo fu denominata dagli internati “la iena di Buchenwald”. Aveva un desiderio feticista per i tatuaggi dei prigionieri, che avrebbe fatto rimuovere alle vittime , per conservarli. Nel blocco 50, dove i medici nazisti facevano gli esperimenti medici di ogni genere soprattutto sui bambini, la pelle dei prigionieri che avevano tatuaggi, dopo l’uccisione, fu conciata e pare che sia stata utilizzata per fare copertine di libri e paralumi  per la stessa Ilse.
“Quando i tedeschi capirono che stavano perdendo la guerra volevano farci morire tutti, con il freddo, la fame, ci buttavano nei pozzi, nei canali da cui non uscivi più. L’ordine di Hitler era di uccidere tutti i prigionieri nei campi di concentramento per non fornire al nemico le prove dei crimini commessi.
 
Poi finalmente arrivarono soldati alleati  e ci liberarono, arrivarono i convogli , riesco a trovare quello destinato all’Italia.
Elena mi accompagnò alla stazione sotto gli sguardi disgustati dei tedeschi che vorrebbero quasi sputarle addosso, ma ne avevano ancora il timore e si limitavano a non salutarla e a non rivolgerle la parola. Elena, da quel giorno non la rincontrai mai più.                             
Una volta arrivato alla stazione di Bari, una signora il cui figlio era morto in guerra ci offrì due “ cofani “ di pasta, non sapevo nemmeno più che sapore aveva la pasta. Mangiai e basta,ero felice.                                                                                                    
Alla stazione di Nardò trovai un conoscente che aveva una bicicletta e dopo avergli promesso che gliela avrei restituita , pedalai verso casa mia, con il cielo e con il vento, ridendo e piangendo “.
 
Questa fu la storia raccontata da tanti IMI come Nino Pagliula  totalmente abbandonati e ignorati dalla Croce Rossa, dalle istituzioni e dimenticati dalla stessa Italia del primo dopoguerra. La resistenza attiva degli ex internati, che pagarono il loro NO al fascismo con almeno 20 mesi di prigionia non venne riconosciuta per decine di anni.
All’indifferenza che li aveva riaccolti in patria Nino Pagliula e molti altri, risposero con il silenzio facendo scattare un vero e proprio meccanismo di rimozione della realtà. Questi “eroi delusi”ammutolirono , chi per decenni, chi per sempre, non riuscendo a rimuovere “il trauma del reticolato”, convinti dell’inutilità del loro sacrificio .
 
I ricordi di Nino Pagliula si sono riaccesi mentre guardava con la nipotina  un documentario sui bambini nei campi di concentramento. Tutto l’orrore e la disumanità che per anni aveva cercato di eliminare dal suo passato sono riaffiorati tutti in un istante in un pianto liberatorio scaturito proprio dal ricordo di quei bambini, di quegli occhi piccoli, innocenti e puri, di quei corpicini che lui stesso aveva visto con i suoi occhi, trasportato tra le sue braccia e visto eliminare in modi brutali che non hanno nulla a che vedere con l’umanità.
Proprio quel pianto ha riscoperto la cicatrice mai risanata del mondo, una cicatrice che ancora oggi brucia nella nostra realtà, giace in quelle pagine di storia sperando di non essere mai dimenticata, sperando di essere un insegnamento soprattutto per i giovani.    Il silenzio predomina sul passato, oscura come una nube le rovine di interi popoli.   E’ un silenzio sordo, che non ha parole.                               
Ciò che queste rovine esalano è solo morte. Anche oggi quando ricordiamo questa pagina di storia lo facciamo in silenzio, perché il dolore e la morte non hanno parole .
 
Grazie Nino, grazie a tutti quelli che come te, sono riusciti a rompere questo silenzio in un modo così umano, per avergli dato una nuova forma e nuove parole. Il tempo cancella, sbiadisce ricordi e consapevolezze, rende eco il dolore che ha afflitto l’umanità.
 
Grazie Nino , per averci ricordato che l’unico modo per far rinascere l’umanità è riuscire a far fiorire vita da quelle ceneri di morte perché finché quelle ferite così dolorose saranno ancora lì non potremo mai andare avanti davvero, e questo già lo vediamo attorno a noi, nel mondo,oggi.                                                                      
L’unico modo è cercare di risanarle con la pace e l’amore. Per quanto difficile possa essere solo l’amore ha il dono di guarire e salvare dalla morte ed è l’amore che sappiamo dare che ci contraddistingue dall’orrore e dalla disumanità.
Grazie a te, Nino, oggi, con lo sguardo sempre rivolto alla storia, scegliamo chi essere, consapevoli che la più grande resistenza della storia degli IMI non è stata fatta da armi ma da idee. Noi oggi sappiamo che dobbiamo essere persone migliori perché abbiamo capito che non c’è futuro senza perdono e che “l’unico modo per uscire dalla disperazione è amare di più”.
 
Gli IMI erano per il 70% meridionali, molti erano pugliesi ,alcuni nostri concittadini , la maggior parte contadini.
IL numero totale delle vittime nel campo di Buchenwald è  circa 56 000 bambini, donne e uomini.  Tra questi furono 15 000 sovietici, 7 000 polacchi, 6 000 ungheresi, 3 000 francesi e altre 26 000 persone da 26 diversi paesi europei. Gli ebrei uccisi circa 11 000. Vi furono,inoltre, 9 000 vittime tedesche tra prigionieri politici,religiosi, omosessuali ed altri.
 
Insieme a Nino Pagliula  i sopravvissuti del Campo di Buchenwald sono stati liberati dall’esercito americano l’ 11 aprile 1945.
 
 


Francesca Vonghia,                            Elsa Indiano,                                   Simone Marsina,                                 Danilo Ingusci

                                                                
 
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L’Associazione Punto di Incontro Aps , senza scopi di lucro, si è costituita il 24 Settembre 2019, ottenendo il riconoscimento ufficiale da parte della Regione Puglia, con la relativa iscrizione al Registro Regionale delle Associazioni di Promozione Sociale - RUNTS -   al numero 430/LE avvenuta in data 01 Dicembre 2020.
73048 - Nardò - Via Seminario, 3





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