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Gino Caputo

SAGGISTICA
GINO CAPUTO        18 Febbraio 2022                                                                      Saggistica | Chi era Osvaldo De Benedittis

       
                                     
 
 
Chi era Osvaldo De Benedittis

Breve biografia di un neritino
 
 
(a cura di Luigi Caputo)





Note Biografiche
OSVALDO DE BENEDITTIS nacque nel 1914 a Nardò, in provincia di Lecce, e mori a Firenze nel 1999. Entrò nell' Arma dei Carabinieri nel febbraio del 1935. Finita la Seconda Guerra Mondiale ricoprì numerosi   incarichi in molte località del territorio nazionale, tra cui Firenze, ove   insegnò presso la Scuola Sottufficiali. Dopo il congedo, si occupò delle   pubblicazioni di una casa editrice per le Forze di Polizia.  

                                       
                                                                                     

Quando mi capitò tra le mani il libro «Ricordi della mia infanzia», di Ovaldo De Benedittis, prestatomi dal’amico Aldo Marra, rimasi molto attratto dalle testimonianze di questo autore neritino, a me sconosciuto, che tratteggiava con dovizia di particolari e una narrativa affabulatrice, una Nardò di inizio novecento così distante da quella da me vissuta, ma affascinante e ricca di valori e cose semplici nel tracciato di vita raccontato.
 

                                                                                      


La prefazione autorevole del prof. Flavio Manieri[1] così esordiva nelle prime righe:                                                       
La terra scalza – Vita quotidiana d’un bambino nel Salento d’inizio secolo. In margine ad un libro di ricordi.
Ma particolare interesse e curiosità ebbero a suscitarmi le vicende di vita dell’autore che, pur non trattate organicamente dallo stesso, mi portavano a delibarle dallo scritto quando saltuariamente descritte.
Osvaldo De Beneddittis nacque a Nardò nel 1914.
Ebbe quattro fratelli e una sorella.
La frequenza delle scuole elementari per lui fu molto disagevole perchè negativamente condizionata dalla severità del maestro che gli ingenerò interiormente paure e insicurezze fino a renderlo balbettante nella lettura e mediocre nella calligrafia. Eppure Osvaldo che era un ragazzo robusto e assai forte, sempre in difesa del più debole, fuori dall’ambiente scolastico primeggiava e capeggiava sui suoi coetanei.
Lasciò la scuola, anche per desiderio di suo padre, agricoltore, che necessitava di un suo aiuto per gestire e coltivare diversi pezzetti di terreno di proprietà sparsi per tutto l’agro di Nardò e molto distanti tra di loro.
Tuttavia il nostro sentì forte il desiderio di tornare sui banchi di scuola, riprendere i  libri e studiare come facevano molti suoi amici che continuavano le scuole superiori e da lui per questo invidiati.
Osvaldo invece con il suo cavallo e carro lavorò, tra l’altro, per la costruzione della strada che collega direttamente Taranto a Gallipoli.
Il lavoro comunque non lo allontanò dalla sua passione per i libri.
Le sue prime letture da autodidatta, nelle poche ore di libertà che i  lavori di campagna gli consentivano, erano a fondo etico-sociale e privilegiavano le storie e il dolore condiviso di un riscatto giusto: Manzoni, De Amicis, Victor Hugo (I Miserabili), la letteratura russa di Tolstoj e altri.
Per rendersi indipendente alfine si arruolò nell’Arma dei Carabinieri e la vita lo portò prima in Africa Orientale e nel secondo conflitto mondiale fu prigioniero prima dei tedeschi e poi degli inglesi.
Tornò a casa all’età di oltre trentanni mezzo distrutto.
Notizie queste che non potevano soddisfare l’esigenza di saperne di più di questo giovane neritino. La sua grande passione per i libri, per quella cultura che rimpiangeva non aver potuto avere per la  condizionata limitata frequenza scolastica che gli avrebbe riservato nella vita ? Lo avrebbe ricompensato e gratificato nel suo futuro?
La risposta a queste domande necessitava di ricerche di informazioni ed eventualmnte di altre fonti documentali.
Con gradita sorpresa riscontrai che il nome di Osvaldo De Benedittis figurava come autore in altre opere letterarie. Di particolare interesse tra queste è «La mia Guerra d’Africa».
La sinossi di retrocopertina ne traccia in sintesi gli interessanti contenuti dell’opera biografica in uno spaccato storico bellico molto travagliato.
 
 
La campagna d'Etiopia, voluta nel 1935 da Benito Mussolini, fa da sfondo agli eventi narrati in questo volume. Si tratta della "microstoria" di un giovane carabiniere italiano, inviato con compiti di polizia nel Corno d'Africa, il quale racconta, con lo stile diretto del diario, i limiti politici dell'impresa fascista: disorganizzazione, corruzione, inutili crudeltà. L'autore ci narra le vicende del suo drappello di Carabinieri che, insieme ad una divisione di Alpini, attraversa, a dorso di mulo, in lunghe marce estenuanti, l'intero Acrocoro etiopico. E’ la storia di uomini, donne e di animali  accomunati dalla ricerca di luoghi in cui vivere, ma soprattutto sopravvivere, trascinati e spesso soggiogati dalla crudeltà della natura e delle circostanze. Ma è anche la denuncia del degrado morale delle popolazioni locali e delle truppe italiane travolte dalla guerra: la prostituzione infantile, le mogli-bambine, la compravendita di corpi e di menti innocenti. In queste pagine si raffigura il quadro di quei giovani italiani che preferirono la guerra piuttosto che sottomettersi ad un destino di duro lavoro in un'Italia ancora in larga misura rurale e che poco pareva offrire ai loro sogni.  Di qui il desiderio di fuga e di avventura che in questo diario trova riscontro nella descrizione di quel paese, bello e immenso, e di quelle popolazioni fiere, con i loro tratti fisici, le antiche tradizioni, gli usi e la vita quotidiana. Ed è questo, forse, uno degli aspetti più originali e inaspettati del libro: lo stupore e il fascino che i paesaggi dell'Etiopia esercitarono sul giovane carabiniere e che oggi possono esercitare sul lettore che ripercorra con lui quel viaggio. Le vicende storiche del periodo vengono narrate con una sottile e costante ironia che non risparmia il Regime fascista e i suoi generali, in particolare la figura di Rodolfo Graziani, il "grande gitana", e che contribuisce a fornire un'immagine realistica dell'ultima  impresa  coloniale italiana.
 
 

Particolarmente  circostanziata, ai fini della ricerca, è la presentazione al libro scritta dal figlio Cesare che traccia con cognizione di causa il percorso di vita paterna,  ove risaltano le doti indiscusse, interpretandone con cognizione di causa le traversie belliche, le condizioni sociali, la carriera ed i valori della famiglia.

Mio padre, Osvaldo De Benedittis, nacque nel 1914 a Nardò, in provincia di Lecce, da una famiglia di piccoli proprietari terrieri, dedita alla coltivazione  del grano e alla produzione di vino e di olio, nonché alla vendita e mescita del vino di produzione in una cantina di proprietà, nell'antico centro storico, frequentata da ogni specie di avventori.
 
Quarto di sei fratelli che avevano continuato gli studi, dopo le scuole elementari fu avviato, dal padre Vincenzo, alle attività agricole e della mescita. Questa condizione, impostagli dalla famiglia, gli faceva dire da ragazzo: «Vorrei ammalarmi per rimanere tranquillo a leggere». Fin da adolescente, infatti, si era dimostrato un attento e appassionato lettore di tutti i testi che trovava nella casa paterna e dai parenti.
 
Teneva molto all'aspetto fisico e per questo si allenava costantemente nella corsa, nella lotta con i coetanei e fu un buon ginnasta agli anelli tanto da essere inviato a Roma e scelto dal regime tra i giovani più atleticamente preparati.
 
Non dimostrava un carattere semplice: era conosciuto, nel paese, per le "botte" che aveva distribuito ai vari bulletti e alle bande di coetanei.
 
Impossibilitato per la sua indole a vivere di un lavoro fatto di campi da vangare e di ubriachi da contenere nella cantina, decise, dopo aver assistito ad un omicidio a fil di lama nella piazzetta antistante alla bottega, di seguire i due suoi fratelli maggiori nell'Arma Carabinieri.
 
L'abitudine al duro lavoro della campagna e l'attitudine alla lettura lo facilitarono nei compiti di carabiniere, ma venne trasferito in provincia di Cuneo. Il freddo intenso del luogo, tuttavia, lo indusse ad accettare di re carsi in Africa Orientale dove, per caso, vi trovò uno dei fratelli carabinieri, Luciano, divenuto Vicebrigadiere presso il Comando Generale delle operazioni nel Corno d'Africa.
 
Di quei luoghi mio padre portava con sé il ricordo delle marce estenuanti, ma anche della bellezza delle donne somale e dei paesaggi del Basso-Giubba, di luoghi un cui non si era mai visto un uomo bianco e dove la popolazione locale veniva appositamente per vederlo. Non c'erano in quella  "campagna d'Africa" grandi battaglie se non scaramucce e compiti di polizia. Ricordava con simpatia i momenti vissuti assieme alle colonne degli Alpini e alle colonne di Camicie nere che avevano, que st'ultime, compiti logistici e di costruzione di strade; e poiché il reclutamento delle Camicie nere, in Italia, veniva fatto su base comunale, spesso vi erano fra gli uomini legami di amicizia o di conoscenza reciproca a danno della disciplina; e proprio per evitare che tra tanti "amici" sparissero le paghe, fu affidato ai Carabinieri il compito di vigilare su di esse.
 
Fece parte della scorta del Generale Graziani nella sua campagna per reclutare tribù indigene e contrastare l'avanzata inglese, ma anche quando il generale, nel suo tempo libero, andava a caccia di gazzelle nella savana.
 
Questo periodo vissuto in luoghi esotici dal clima torrido e profonda mente diverso da quello italiano fini quando venne rimpatriato per aver perduto la pistola durante una marcia di spostamento; questa fu la sua sal vezza. Di coloro che restarono non si sono avute più notizie; vennero inesorabilmente sacrificati alla guerra con gli inglesi. D'altra parte, che resistenza avrebbero potuto opporre alcuni sparuti drappelli di Carabinieri sparsi nell'Africa Orientale?
 
Dopo il rimpatrio si recò a Firenze (sua dimora ideale che ricordava come una città molto signorile e piacevolissima) alla Scuola Allievi Sottufficiali, frequentata anche dal fratello Luciano, uomo grande e forte, capace di sollevare una persona con un braccio, ma poco amante delle letture e affascinato dalla bella vita. Finito il corso tornarono assieme a Nardò con il grado di Vicebrigadieri: alla stazione andò a prenderli il fratello Vittorio, allora studente universitario, che conoscendo la voglia di studiare di Luciano, per metterlo in difficoltà, chiese l'esito e la votazione del corso. La risposta di Luciano fu immediata: «Siamo entrambi vicebrigadieri!
 
La guerra continuava e portò mio padre in Grecia e in Iugoslavia. In Grecia ebbe il compito di diffondere un po' di cultura tra le truppe: gli venne affidato un camion pieno di libri e un autista per spostarsi tra i reparti e distribuirli ai soldati i quali volevano quelli con la copertina gialla perché credevano fossero di genere "giallo". Quando disse che tutti i libri in distribuzione erano dei "gialli" fini subito le scorte e dovette chiederne un rifornimento per ricominciare la distribuzione,
 
Questo gli valse una licenza premio di tre mesi ad Atene che, per un giovane Vicebrigadiere dei Carabinieri, rappresentò un momento di vita in una capitale che offriva molto, sia culturalmente che in termini di divertimento.
 
Le vicende lo portarono poi in Iugoslavia e in Albania, paese, come ebbe a dire, più arretrato dell'Africa Orientale e dove trovò addirittura persone che non conoscevano le forbici per tagliarsi le unghie.
 
Ritornato in Grecia, ebbe sempre mansioni di buon livello culturale: dall'Ufficio Cifra del Comando Generale delle operazioni di guerra, ove i compiti più delicati erano affidati ai Carabinieri, passò al comando di una guarnigione di stanza in una piccola isola greca, ove aveva un interprete che ritrovò a Firenze negli anni Sessanta. Dopo tre mesi non ebbe più bi sogno di aiuto, perché aveva appreso della lingua quanto era necessario per cavarsela da solo.
 
Nel '43 fu fatto prigioniero dai tedeschi e trasferito in Germania. Arrivato insieme ai compagni nel campo di prigionia, fin dai primi giorni si accorse della prostrazione psicologica dei soldati italiani che traspariva. nell'aspetto trasandato, sporco e senza decoro: colletti senza cravatte, giacche sbottonate, scarpe sudice e barbe lunghe. Anche in questa occasione Osvaldo si distinse: prese la migliore divisa che gli era rimasta, lucidò le scarpe, si mise in ordine e si presentò all'adunata dei prigionieri; questo esempio di dignità personale colpì il comandante del campo, il quale lo nominò responsabile di tutti i prigionieri. Così il Vicebrigadiere dava ordini anche ai Marescialli anziani, mentre gli ufficiali vivevano separati dal resto della truppa.
 
I due anni di prigionia li passò in un campo di aviazione militare mangiando le patate che riusciva a coltivare e scappando nelle buche quando c'erano i bombardamenti degli Alleati o le mitragliate degli aerei inglesi. Raccontava di aver assistito a tante battaglie aeree, ma un episodio gli era rimasto particolarmente impresso: poiché i tedeschi avevano costruito per primi gli aerei a reazione, gli inglesi li attendevano al ritorno sopra gli aeroporti; accadde così che tre aerei tedeschi, che avevano costretto un aereo inglese all'atterraggio, furono mitragliati, durante un'improvvisa impennata, da un caccia inglese che riusci anche ad abbatterli e a fuggire tra spire di voli, acrobazie e fulmini di contraerea.
 
Alla fine della guerra, ridotto dalla durezza della prigionia a soli qua rantacinque chili, fu internato in un campo condotto dagli inglesi. Qui ebbe a vedere scene strazianti di prigionieri ucraini ricondotti a forza in Russia ove li attendeva un triste destino; da allora non perdonò mai agli anglosassoni quella scelta disumana.
 
Venne poi trasferito a Firenze, sua città preferita e, in seguito, con il grado di Brigadiere, torno al paesello a "cercar moglie"; fu così che sposò, nel 1947, Vita Maria, sette anni più giovane di lui e veramente bella, ma altrettanto volitiva, classico carattere, questo, di certe donne meridionali che molto influenzò le sue scelte: infatti non volle seguirlo in Africa Orientale ove l'Arma l'avrebbe mandato per ricostruire i reparti di polizia, né volle andare ad Atene ove mio padre aveva possibilità di far parte del personale dell'Ambasciata d'Italia.
 
Così continuò a fare il Maresciallo prima a Palazzuolo sul Senio, ai confini con la Romagna, immerso nella neve per l'intero inverno dove io mi ammalavo tutti i giorni e dove nacque mio fratello Alessandro; poi in Sicilia, a Lampedusa, Prizzi e Canicatti, quindi di nuovo in Toscana all'isola d'Elba, nella cittadina di Porto Azzurro, luogo incantevole, ma con il carcere e con i problemi di traduzione detenuti che esegui con estrema fermezza ed altrettanta umanità. Nel paese convivevano comunità livornesi e napoletane che si ritrovavano al porto e nei bar, unendo agli impegni di polizia alcuni momenti di puro vernacolo durante i quali la caserma si trasformava nella commedia napoletana o livornese. A questi episodi piacevoli erano uniti nel ricordo fatti di delinquenza e anche di contro spionaggio, come quando ebbe l'incarico di sorvegliare un grande panfilo battente bandiera greca che spesso ormeggiava nel porto.
 
Negli anni Settanta ci spostammo a Firenze, ove prese servizio presso la Scuola Sottufficiali occupandosi della disciplina degli Allievi.
 
Per motivi di salute andò in pensione e mise a frutto tutti gli anni di servizio nell'Arma, occupandosi di una casa editrice per le Forze di Polizia; in questo periodo pubblicò due suoi testi specialistici e numerosi lavori di Magistrati e Ufficiali dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e di Dirigenti della Polizia di Stato.
 
L'idea di scrivere un libro sul periodo trascorso in Africa nacque in mio padre durante la lunga malattia che lo portò alla morte nel 1999. Lo scopo era forse quello di chiarire a se stesso il senso di quegli anni e di quelle avventure e nello stesso tempo di raccontare ai figli e alle giovani generazioni la vicenda esemplare di un giovane che si era trovato a vivere in uno dei momenti più difficili della storia d'Italia: il fascismo e l'ultima impresa coloniale italiana, mentre sullo sfondo si addensavano minacciose le nubi della Seconda Guerra Mondiale che avrebbe di lì a poco travolto il Paese. È la storia di una generazione di italiani che per le condizioni sociali o familiari in cui si trovò a vivere scelse la guerra, l'avventura piuttosto che sottomettersi ad un destino di duro lavoro in un'Italia ancora in larga misura rurale e che poco pareva offrire ai sogni dei giovani. Di qui il desiderio di fuga e di avventura che nel racconto trovano riscontro anche nell'esplorazione di luoghi e nella descrizione degli usi e dei costumi delle popolazioni indigene. Ed è questo forse uno degli aspetti più originali e inaspettati del libro: lo stupore e il fascino che i paesaggi dell'Etiopia esercitarono sul giovane carabiniere e che possono esercitare sul lettore che ripercorre con lui quei viaggi. Le vicende storiche del periodo vengono narrate con una sottile e costante ironia che non risparmia il Regime e i suoi generali e che contribuisce a fornire al lettore un quadro realistico dell'ultima impresa coloniale italiana.
 
                                                                                                                                   Cesare De Benedittis


       
[1]Flavio Manieri è stato pofessore di Psicopedagogia e di Psicopedagogia del linguaggio e della Comunicazione presso l’Università di Roma Tre.

Non meno pregiate sono state le opere di carattere giuridico realizzate dal De Benedittis, frutto di studio accompagnato ad esperienza maturata sul campo per le funzioni svolte nell’Arma e a servizio della Magistratura.    
I volumi realizzati concernenti Gli atti di Polizia Giudiziaria, Laurus Robuffo, Firenze, 1980 e  Commento operativo al Codice penale ad uso della polizia giudiziaria, Laurus Robuffo, Firenze, 1989, pubblicati in varie ristampe ed aggiornamenti, gli valsero encomi ufficiali, riconoscimenti e gratificazioni da parte di alte autorità (ved. documenti allegati a firma del Generale di Div.(p.a.) della Guardia di Finanza, prof. Fulberto Lauro, dell’Aiutante Maggiore della Scuola Allievi agenti di P.S. di Caserta, Comm. Capo Ciro Nobile, dell’on. Carlo Casini (magistrato), del Comandante della Scuola Sottufficiali Carabinieri, Colonnello t. SG Sergio Fantazzini).
 
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Si ringraziano :
Aldo Marra
Vincenzo De Benedittis
Vero Gabrieli
Cesare De Benedittis
Verusca Gallai (Referente della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze).
 
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Bibliografia
- Osvaldo De Benedittis, Ricordi della mia infanzia, Firenze 1997
- Osvaldo De Benedittis, La mia guerra d’Africa, Climamen, 2005
- Osvaldo De Benedittis,  Gli atti di Polizia Giudiziaria, Laurus Robuffo, Firenze, 1980
 
Gino Caputo
                                                                                                                                                                                     
                                                                                                                                                                               

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